LAMPIONI INTELLIGENTI: IL FUTURO DELLA RESILIENZA URBANA

Cammini per strada, è sera. I lampioni accesi scandiscono il ritmo della città: luce bianca sull’asfalto, voci che rimbalzano nei vicoli, traffico che sfuma in lontananza. Tutto sembra normale. Ma cosa accadrebbe se, all’improvviso, un blackout spegnesse ogni cosa? Se i telefoni smettessero di funzionare e la rete internet svanisse?
In quel momento, proprio quei lampioni potrebbero diventare i tuoi migliori alleati.

Dal pericolo alla soluzione

Oggi più di quattro miliardi di persone vivono in aree urbane. Ogni disastro naturale o attacco terroristico colpisce quindi un numero sempre più grande di cittadini. Le infrastrutture digitali sono vitali, ma fragili: bastano pochi minuti di interruzione per creare caos.

La risposta non è guardare altrove, ma valorizzare ciò che già esiste nello spazio urbano … esempio: i lampioni.

Lampioni che comunicano

Non solo luce, ma veri e propri nodi intelligenti.
Un lampione resiliente può ospitare:

  • Sensori ambientali: per rilevare incendi, allagamenti o anomalie nell’aria.
  • Hotspot WiFi pubblico: in grado di mantenere connessioni di emergenza anche senza internet tradizionale.
  • Reti mesh: ogni lampione dialoga con gli altri creando una rete autonoma.
  • Canale riservato ai soccorritori: uno spazio sicuro per comunicazioni critiche.
  • App web senza installazione: accessibile a tutti, capace di funzionare anche da dispositivo a dispositivo (D2D).

Prepping cittadino in azione

Per chi vive in città, questo significa:

  • Ridondanza: una seconda possibilità quando le infrastrutture crollano.
  • Inclusione: chiunque con uno smartphone può accedere a informazioni vitali.
  • Adattabilità: lo stesso strumento che illumina la sera diventa rete di salvezza in emergenza.
  • Partecipazione: i cittadini diventano parte attiva, non semplici spettatori.

Una scena reale

Un temporale improvviso devasta la rete elettrica. I telefoni smettono di funzionare, i palazzi restano al buio. Ma in una piazza, i lampioni intelligenti si accendono con energia autonoma e attivano la rete mesh. I residenti si collegano, condividono informazioni sul livello dell’acqua, ricevono messaggi dei soccorritori.
Quel luogo diventa rifugio, centro di comunicazione, punto di incontro. La piazza non è più solo un passaggio: è resilienza urbana viva.

Dalla teoria alla pratica

Dal 2019, molte città hanno integrato il Wi-Fi pubblico nei lampioni come parte delle loro infrastrutture smart city, spesso utilizzando programmi di finanziamento europei e nazionali.

Alcuni esempi:

  • In Italia 224 comuni, oltre i 2.800 comuni europei, hanno ricevuto fondi dal programma UE WiFi4EU per installare Wi-Fi gratuito in spazi pubblici, inclusi lampioni, parchi e piazze. Le regioni più attive sono Lombardia, Campania e Piemonte.
  • La città di Monza ha implementato un sistema di Wi-Fi pubblico con 35 access point distribuiti capillarmente in vari luoghi come centri civici e biblioteche, parte di un progetto più ampio di smart city e sicurezza.
  • Milano è una delle città europee con la maggiore capillarità di hotspot Wi-Fi pubblico, con 597 hotspot e una media di 2.356 abitanti serviti per hotspot. Anche Barcellona, Monaco e Berlino hanno reti Wi-Fi pubbliche strutturate e integrate con i servizi urbani.
  • Alcuni comuni come Bitonto (Italia) hanno esteso la copertura Wi-Fi gratuita in diverse piazze utilizzando hotspot integrati anche nei lampioni o aree simili.

Queste iniziative dimostrano che dal 2019 il Wi-Fi pubblico nei lampioni è stato ampiamente adottato in diverse città, in contesti di riqualificazione urbana e smart city, supportato da programmi comunitari e accordi con utility locali.

Focus

Il prepping cittadino non si limita a torce e scorte alimentari: significa anche conoscere e sfruttare le tecnologie già presenti attorno a noi.
Un lampione può sembrare solo una luce sul marciapiede. In realtà, può essere il primo baluardo contro il buio dell’imprevisto.

PREPPING CITTADINO: QUANDO IL PERICOLO ARRIVA DALLA TECNOLOGIA

Cammini sotto la pioggia, il vento ti sferza in volto e ti stringi nel giubbotto impermeabile. È un’immagine tipica quando si parla di “protezione”: pensiamo subito a meteo avverso, blackout o traffico paralizzato. Ma c’è un altro potenziale pericolo, invisibile e altrettanto concreto, che oggi abita le nostre città: la tecnologia che ci circonda. Non parliamo di fantascienza, ma di fatti recenti.

Videocamere che diventano finestre sulla tua vita

A Treviso è stato scoperto un sito web liberamente accessibile dai motori di ricerca, con migliaia di filmati rubati da telecamere di sorveglianza. Non solo appartamenti privati, ma anche centri estetici e studi medici. Migliaia di occhi digitali hackerati, trasformati in un grande spettacolo a pagamento.

Secondo l’analisi della società di cybersecurity Yarix, la piattaforma è attiva almeno da dicembre 2024 e raccoglie oltre 2.000 videocamere compromesse in tutto il mondo. Un utente può sfogliare gli estratti gratuiti oppure comprare l’accesso diretto, con prezzi che vanno da 20 a 575 dollari. I pagamenti? Su Telegram, attraverso un bot che funziona come un supermercato dell’intimità.

L’archivio che funziona come un motore di ricerca

Il portale cataloga i video con tag che descrivono luoghi, stanze e persino attività delle persone riprese. Non serve essere hacker: basta digitare quello che si vuole vedere, come fosse una normale piattaforma video. In Italia risultano già almeno 150 filmati, un numero in costante crescita.

Domini lontani, giustificazioni vicine allo zero

Il sito è registrato alle Isole Tonga, una scelta che mette i gestori al riparo da controlli stringenti e da accordi di cooperazione internazionale. Ufficialmente dichiarano di voler “sensibilizzare” sui rischi delle falle digitali. Ma la realtà è un business morboso, pronto a monetizzare con abbonamenti e vendite.

Prepping cittadino non è solo zaini e torce

Qui entra in gioco il concetto di prepping cittadino. Prepararsi non significa soltanto avere la torcia carica in caso di blackout o sapere la strada alternativa durante un’alluvione. Significa anche:

  • proteggere la propria casa digitale (password robuste, aggiornamenti costanti, router sicuro);
  • non lasciare dispositivi connessi con impostazioni predefinite;
  • sapere che telecamere e smart device, se mal gestiti, sono come finestre spalancate sul salotto di casa.

Le indagini e il futuro

La polizia Postale sta verificando l’origine dei contenuti e se ci siano anche video costruiti ad hoc. Nel frattempo, Yarix continua a monitorare la piattaforma. Ma per i cittadini, la vera lezione è un’altra: la resilienza urbana oggi significa difendersi non solo dalla natura, ma anche dalla tecnologia che portiamo dentro le nostre mura domestiche.

Focus

Il prepping cittadino non è paranoia: è consapevolezza. Una famiglia che aggiorna il proprio router o cambia le password di default delle telecamere è tanto resiliente quanto chi prepara scorte d’acqua o un kit per i blackout. Le emergenze non arrivano solo dal cielo: a volte viaggiano in silenzio attraverso un cavo di rete.

COMUNICAZIONI FIDATE: POC, PMR, CB IN EMERGENZA URBANA

Immagina: la città è al buio, la rete va e viene, e tu stringi in mano il tuo strumento di comunicazione. Non importa che sia uno smartphone, una PoC Radio o un portatile PMR/CB: quello che conta davvero è chi c’è dall’altra parte.

Ecco il punto che spesso sfugge: la resilienza non è questione di mezzo, ma di comunità e fiducia.

PoC: perché funziona nella maggioranza dei casi

Chi critica le PoC dice: “Se cade Internet, muoiono anche loro.” Vero, ma parliamo chiaro: nella stragrande maggioranza degli scenari urbani – blackout locali, alluvioni, traffico bloccato – Internet resta funzionante. E quando funziona, la PoC è imbattibile:

  • garantisce copertura ovunque ci sia rete dati, senza dipendere dal raggio limitato classico di un PMR/CB;
  • offre qualità audio stabile;
  • permette canali privati e centralizzati, evitando la dispersione tipica delle radio libere.

La PoC, in emergenza cittadina, ti dà una certezza: puoi parlare subito con chi già conosci e di cui ti fidi.

Il problema delle radio “aperte” (PMR, CB, PONTI RADIOAMATORIALI)

Se non sei inserito in una community consolidata e fidata, accendere un PMR o un CB è come urlare da un balcone sperando che ti risponda la persona giusta. Potresti trovare:

  • un volontario disposto ad aiutarti,
  • qualcuno che non capisce la situazione e crea confusione,
  • o peggio, un malintenzionato che approfitta delle informazioni che stai trasmettendo.

È qui che nasce il paradosso: il mezzo può anche funzionare senza Internet, ma non ti protegge dalla variabile umana.

La questione privacy e sicurezza

C’è un aspetto che viene spesso sottovalutato. Nei sistemi aperti come PMR, CB o radioamatoriali:

  • chiunque può ascoltare le tue trasmissioni;
  • i dettagli che condividi (luoghi, risorse, intenzioni) diventano un’informazione pubblica;
  • in uno scenario emergenziale, persone disperate o malintenzionate possono sfruttare questi dati contro di te.

Esempio concreto: se comunichi in chiaro che hai acqua, viveri o un generatore, potresti attirare chi, per sopravvivere, decide di prenderli con la forza.

In emergenza, ogni dettaglio che condividi in chiaro può trasformarsi in un boomerang:

  • “Ho acqua e viveri” → segnali a sconosciuti che sei una risorsa.
  • “Siamo bloccati in via…” → dai coordinate a chi potrebbe approfittarne.
  • “Ho un generatore” → inviti, involontariamente, chi potrebbe volerlo a ogni costo.

Le radio libere non proteggono le informazioni. Al contrario, in contesti instabili, possono esporre te e la tua famiglia a rischi maggiori.

Con la PoC, invece, parli in ambienti protetti, a cui accede solo chi fa parte della tua rete. Non è infallibile, ma riduce drasticamente le vulnerabilità.

La tecnologia PoC abbassa i pericoli a un livello gestibile.

Fiducia prima della tecnologia

Il vero discrimine non è con o senza Internet, ma con o senza interlocutore fidato.

  • Se dall’altra parte c’è qualcuno della tua rete – un familiare, un amico, un gruppo organizzato – puoi contare su di lui.
  • Se stai trasmettendo “a caso” su frequenze libere, stai lasciando la tua sicurezza al caso.

Focus

Il prepping cittadino non si basa sul collezionare strumenti diversi, ma costruire reti fidate. La PoC funziona perché mette al centro la community, non il mezzo.

  • Internet cade? Bene, hai sempre piani B (PMR, CB, PONTI RADIOAMATORIALI) con le dovute precauzioni.
  • Internet funziona? La PoC ti dà la comunicazione più rapida, sicura e organizzata.
  • Se dall’altra parte c’è un interlocutore fidato, la comunicazione è resiliente.
  • Se stai trasmettendo in chiaro a sconosciuti, stai giocando con la tua sicurezza.

La resilienza nasce dal sapere con chi parli, non solo da cosa usi per parlare.

Cos’è lo storm naming

Cammini per strada in un giorno apparentemente normale, ma intorno a te il vento si alza, i cartelli oscillano e le prime gocce pesanti battono sull’asfalto. Poi senti una notizia alla radio: “Sta arrivando la tempesta Adrian”. Quel nome resta impresso, ti fa drizzare le antenne, ti fa capire che non è un acquazzone qualunque. È esattamente questo lo scopo dello storm naming, la pratica di dare un nome alle tempeste per renderle più riconoscibili e farci reagire con maggiore attenzione.

Lo storm naming è nato ufficialmente in Europa nel 2015 su iniziativa di EuMetNet, la rete dei servizi meteorologici europei, sull’esempio degli Stati Uniti che da decenni battezzano gli uragani.
Dal 2021 anche l’Italia aderisce, entrando nel gruppo del Mediterraneo centrale insieme a Slovenia, Croazia, Macedonia del Nord, Montenegro e Malta.

Perché dare un nome alle tempeste

Non è un vezzo linguistico, ma una strategia di comunicazione.
Secondo l’Aeronautica Militare:

  • una denominazione univoca e ufficiale migliora la comunicazione di massa;
  • aumenta la consapevolezza preventiva prima che l’evento colpisca;
  • rende i cittadini più attenti alle allerte meteo e più predisposti a seguire le raccomandazioni di sicurezza.

In altre parole: quando una tempesta ha un nome, la percepiamo come una minaccia concreta.

Chi decide il nome

Non basta un po’ di vento forte per “battezzare” una tempesta.
Per ricevere un nome, ci devono essere delle condizioni precise:

  • nessun altro Paese europeo deve averla già nominata;
  • una nazione deve essere la prima nazione colpita;
  • deve trattarsi di un’area ciclonica con diametro tra qualche centinaio e migliaio di chilometri;
  • la velocità del vento deve rientrare nei livelli di allerta arancione o rossa di Meteoalarm.

È fondamentale il coordinamento europeo: immagina il caos se lo stesso ciclone venisse chiamato in modi diversi da ogni nazione.

Un caso emblematico: Vaia o Adrian?

Nel 2018 il Nordest italiano fu travolto da una tempesta che noi ricordiamo come Vaia. Ma in realtà, pochi giorni prima, in Francia era stata nominata Adrian.
Ecco il problema: la maggior parte delle perturbazioni che raggiungono l’Italia arrivano dall’Atlantico, quindi spesso il nome è deciso dai gruppi europei occidentali (Francia, Spagna, Portogallo, Belgio). Solo in casi di ciclogenesi nate nel Golfo di Genova ha più senso che sia l’Italia a “battezzare”.

Perché non gli anticicloni?

I cicloni hanno un ciclo di nascita, crescita e decadimento. Sono eventi temporanei che lasciano il segno.
Gli anticicloni invece sono strutture persistenti: l’Anticiclone delle Azzorre o l’Anticiclone africano restano sempre quelli, anche se si spostano. Non avrebbe senso rinominarli ogni volta.

Come vengono scelti i nomi

I criteri sono semplici:

  • ordine alfabetico,
  • alternanza di genere maschile/femminile.

In altri Paesi si è trasformata in una vera e propria partecipazione collettiva: nel Regno Unito, ad esempio, i nomi vengono scelti tra decine di migliaia di proposte del pubblico. C’è chi ha suggerito Dave in omaggio al marito che “russa più forte di qualsiasi tempesta”.

Focus

Lo storm naming non è folklore meteorologico. È uno strumento concreto di prepping cittadino, perché trasforma un fenomeno complesso in qualcosa di immediato e comprensibile.
Sapere che arriva “la tempesta Alessio” o “la tempesta Amy” può sembrare un dettaglio, ma in realtà è un meccanismo che salva vite: riconoscere la minaccia, condividerla e prepararsi insieme diventa più semplice quando quella minaccia ha un nome.