COMUNICARE IN EMERGENZA: COSA FARE SE L’ALTRO NON COLLABORA

Stai cercando di trasferire informazioni operative in un contesto emergenziale reale – strade bloccate, folla di persone, traffico e tensione – e dall’altra parte c’è chi non sta realmente ascoltando, parla sopra, minimizza o tratta la comunicazione con superficialità. È una situazione tipica non solo nelle emergenze, ma anche nei contesti di comando o coordinamento.

Protocollo operativo pratico da adottare:

Stabilire la cornice della comunicazione
Prima di dare l’informazione, chiarisci la regola del canale:

  • “Adesso ti do indicazioni chiare e concise, ascolta fino alla fine e poi mi dici se hai capito.”
    Così metti subito un confine che chi riceve deve rispettare.

Spezzare il flusso con una frase di stop
Se l’altro comincia a parlare sopra, puoi fermarlo con un’interruzione secca ma neutra:

  • “Aspetta. Prima ascolta tutto, poi ti rispondo.”
  • “Fermati un secondo, questa parte è importante per te.”

Non serve alzare la voce, basta essere incisivi e mantenere un tono fermo.

Uso del linguaggio prioritario
In emergenza, chi comunica deve usare frasi corte, quasi “militari”:

  • “Stop. Ascolta. Linea ferroviaria chiusa.”
  • “Non muoverti. Aspetta istruzioni.”

Le parole chiave corte impediscono che il messaggio vada perso nel rumore.

Gestione della superficialità
Se la persona continua a sminuire, non è produttivo insistere con spiegazioni lunghe:

  • Riduci la comunicazione all’essenziale (dati e direttive).
  • Se non rispetta le direttive, passa l’informazione al gruppo, non al singolo. Così capisce che la catena non dipende solo da lui.

Tecnica del “ripetimi”
Alla fine, chiedi di ripetere:

  • “Dimmi cosa hai capito.”
    Questo costringe la persona ad elaborare e dimostra subito se ha recepito il messaggio.

In pratica, in contesti del genere tu devi assumere una “voce guida” chiara, che taglia il rumore e impone un ritmo alla comunicazione. Non è questione di autorità in senso gerarchico, ma di efficacia: l’informazione in emergenza non è un dialogo, è un passaggio di consegne.

Se la persona mostra superficialità

Se il dialogo è uno a uno e l’altra persona mostra superficialità, la regola pratica è questa:

  • Trasmetti l’informazione una sola volta, in modo chiaro e sintetico.
  • Chiedi conferma (“hai capito?” / “ripetimi cosa ti è chiaro”).
  • Se la risposta è evasiva o arriva con atteggiamento superficiale, non insistere oltre.

In emergenza, sprecare energia a convincere chi non ascolta è pericoloso per te e per gli altri. Il principio di base è:

  • Chi recepisce, si salva meglio.
  • Chi non recepisce, si assume il suo rischio.

Se vedi che la persona non collabora, tu blocchi la comunicazione, registri dentro di te che gli hai dato le informazioni, e vai avanti.

La logica è simile a quella dei soccorritori: prima aiutano chi collabora, perché l’efficacia dell’intervento dipende anche dalla risposta della persona assistita.

Protocollo rapido in 3 mosse

Per gestire un dialogo uno-a-uno con una persona superficiale in emergenza:

Dì una sola volta, chiaro e diretto
Frasi brevi, senza spiegazioni lunghe.
Esempio:

  • “La ferrovia è bloccata. Resta fermo dove sei.”

Chiedi conferma immediata

  • “Ripetimi cosa hai capito.”
    Se la persona non riesce o banalizza, hai la misura del livello di attenzione.

Decidi se chiudere

  • Se recepisce → bene, vai avanti.
  • Se è superficiale → chiudi con una frase netta:
    • “Ti ho dato le informazioni. Ora fai come credi.”
      Poi non insisti più.

Questo schema ti permette di non sprecare energie e di mantenere la tua autorevolezza. In emergenza non hai il tempo né il lusso di convincere chi non vuole ascoltare: trametti l’informazione, verifichi, chiudi.

Cos’è lo storm naming

Cammini per strada in un giorno apparentemente normale, ma intorno a te il vento si alza, i cartelli oscillano e le prime gocce pesanti battono sull’asfalto. Poi senti una notizia alla radio: “Sta arrivando la tempesta Adrian”. Quel nome resta impresso, ti fa drizzare le antenne, ti fa capire che non è un acquazzone qualunque. È esattamente questo lo scopo dello storm naming, la pratica di dare un nome alle tempeste per renderle più riconoscibili e farci reagire con maggiore attenzione.

Lo storm naming è nato ufficialmente in Europa nel 2015 su iniziativa di EuMetNet, la rete dei servizi meteorologici europei, sull’esempio degli Stati Uniti che da decenni battezzano gli uragani.
Dal 2021 anche l’Italia aderisce, entrando nel gruppo del Mediterraneo centrale insieme a Slovenia, Croazia, Macedonia del Nord, Montenegro e Malta.

Perché dare un nome alle tempeste

Non è un vezzo linguistico, ma una strategia di comunicazione.
Secondo l’Aeronautica Militare:

  • una denominazione univoca e ufficiale migliora la comunicazione di massa;
  • aumenta la consapevolezza preventiva prima che l’evento colpisca;
  • rende i cittadini più attenti alle allerte meteo e più predisposti a seguire le raccomandazioni di sicurezza.

In altre parole: quando una tempesta ha un nome, la percepiamo come una minaccia concreta.

Chi decide il nome

Non basta un po’ di vento forte per “battezzare” una tempesta.
Per ricevere un nome, ci devono essere delle condizioni precise:

  • nessun altro Paese europeo deve averla già nominata;
  • una nazione deve essere la prima nazione colpita;
  • deve trattarsi di un’area ciclonica con diametro tra qualche centinaio e migliaio di chilometri;
  • la velocità del vento deve rientrare nei livelli di allerta arancione o rossa di Meteoalarm.

È fondamentale il coordinamento europeo: immagina il caos se lo stesso ciclone venisse chiamato in modi diversi da ogni nazione.

Un caso emblematico: Vaia o Adrian?

Nel 2018 il Nordest italiano fu travolto da una tempesta che noi ricordiamo come Vaia. Ma in realtà, pochi giorni prima, in Francia era stata nominata Adrian.
Ecco il problema: la maggior parte delle perturbazioni che raggiungono l’Italia arrivano dall’Atlantico, quindi spesso il nome è deciso dai gruppi europei occidentali (Francia, Spagna, Portogallo, Belgio). Solo in casi di ciclogenesi nate nel Golfo di Genova ha più senso che sia l’Italia a “battezzare”.

Perché non gli anticicloni?

I cicloni hanno un ciclo di nascita, crescita e decadimento. Sono eventi temporanei che lasciano il segno.
Gli anticicloni invece sono strutture persistenti: l’Anticiclone delle Azzorre o l’Anticiclone africano restano sempre quelli, anche se si spostano. Non avrebbe senso rinominarli ogni volta.

Come vengono scelti i nomi

I criteri sono semplici:

  • ordine alfabetico,
  • alternanza di genere maschile/femminile.

In altri Paesi si è trasformata in una vera e propria partecipazione collettiva: nel Regno Unito, ad esempio, i nomi vengono scelti tra decine di migliaia di proposte del pubblico. C’è chi ha suggerito Dave in omaggio al marito che “russa più forte di qualsiasi tempesta”.

Focus

Lo storm naming non è folklore meteorologico. È uno strumento concreto di prepping cittadino, perché trasforma un fenomeno complesso in qualcosa di immediato e comprensibile.
Sapere che arriva “la tempesta Alessio” o “la tempesta Amy” può sembrare un dettaglio, ma in realtà è un meccanismo che salva vite: riconoscere la minaccia, condividerla e prepararsi insieme diventa più semplice quando quella minaccia ha un nome.